La scultura di Osvaldo Moi che racconta la verità dei migranti

Paradise-Osvaldo Moi riporta al centro dell’attenzione una realtà che troppo spesso scivola ai margini del dibattito pubblico: il dramma, ancora quotidiano, delle migrazioni

Nel cuore di Lampedusa, dove il mare non è solo bellezza ma anche confine e tragedia, Osvaldo Moi presenta la sua ultima opera. Una scultura che racchiude una storia vera, vissuta sulla pelle, osservata da vicino. Un’opera che nasce non solo dall’occhio dell’artista, ma anche dallo sguardo del soccorritore.
Perché oggi Moi, oltre ad essere artista, è pilota di elicotteri del 118. Sorvola quei tratti di costa dove la vita arriva sfinita, sporca di sale e paura, oppure non arriva affatto. Il suo elicottero, un avanposto di salvezza è spesso il primo a decollare per un ospedale siciliano.

Quei trasporti verso la Sicilia di bambini, ragazzi, donne incinte, attirati da falsi miti, spesso sono statistiche, ma non si dimenticano, segnano, lasciano ricordi indelebili sull’artista Osvaldo che a modo suo vuole rappresentare, raccontare, con una scultura una giovane donna incinta, di origine africana, stremata, priva di parole con una mano a protezione del suo ventre all’ottavo mese con la forza disperata di chi vuole proteggere due vite; una donna senza viso senza nome che in anni ha portato a partorire in Sicilia. Di quel momento, Moi ha colto qualcosa di più.


Dopo una notte trascorsa in volo verso gli ospedali di Agrigento o Palermo, durante il meritato riposo diurno Moi si concede lunghe passeggiate tra gli scogli delle coste dell’isola, dove spesso ci sono barche distrutte dalle onde o indumenti abbandonati. Tra questi, c’era una felpa semplice, grigia, come tante, ma in quel viaggio era una coperta accogliente e con una scritta che lo ha colpito come uno schiaffo: “PARADISE”. Una parola così dolce e amara, se pensata accanto a quei corpi affaticati, a quei sogni in fuga, a quelle vite che spesso non trovano né paradiso, né approdo.

Quella felpa è ora parte integrante dell’opera (realizzata con tecnica mista stoffa resina 96 x 55 x 46 cm – anno 2025). È indossata dalla scultura di Moi: una ragazza di colore, seduta. Non implora, non si inginocchia, non parla, Non Guarda. Resiste. Incarna tutte quelle donne e uomini che attraversano il mare lasciandosi alle spalle la lingua, la terra, i legami. Non chiede compassione, ma comprensione, una vita nuova per quel figlio che deve nascere. E giustizia.

Con quest’opera, che sarà esposta presso il Museo delle Pelagie, Osvaldo Moi riporta al centro dell’attenzione una realtà che troppo spesso scivola ai margini del dibattito pubblico: il dramma, ancora quotidiano, delle migrazioni. E lo fa con un gesto artistico che è anche umano, etico, necessario. La scultura sarà esposta presso il Museo delle Pelagie di Lampedusa, luogo simbolico dove ogni oggetto, ogni volto, ogni storia cerca di resistere all’oblio.

Ciò che rende quest’opera così potente non è soltanto la sua bellezza formale, ma la verità che contiene. È frutto di un doppio sguardo: quello dell’artista e quello del soccorritore. Un uomo che ha visto la paura nei volti, la speranza negli occhi, il silenzio nei corpi. Un uomo che ha scelto di trasformare l’orrore e la speranza in una scultura che parla anche per chi non può più farlo.
In un’epoca dove i numeri sovrastano i nomi, questa figura restituisce volto e voce. Ricorda che l’arte non è fuga, ma atto politico, testimonianza, resistenza. Ricorda che le frontiere non sono solo geografiche, ma anche culturali, emotive. E che perfino una felpa abbandonata può diventare simbolo, memoria, riscatto.
Paradise, in fondo, è una parola che oggi suona come una domanda. Dov’è questo paradiso promesso? Dove si trova quel mito ? Esiste davvero? Per chi?
L’opera non risponde. Ma fa in modo che nessuno possa più far finta di non aver visto.

Inoltre c’è un filo invisibile che unisce le storie. Passa attraverso gli anni, i corpi, i mari. A volte si intreccia in silenzio, altre volte si mostra con la potenza di un gesto, di un volto scolpito, di uno sguardo rivolto verso un orizzonte che non ha confini. È ciò che accade con quest’ opera di Osvaldo Moi che non è solo arte: è ricordo, testimonianza.

Dietro quella figura, c’è molto di più. C’è la vita stessa dell’artista. Un viaggio che si ripete, con altre forme e altri volti, ma con la stessa essenza.

Era l’ottobre del 1961 quando Osvaldo, neonato di appena quaranta giorni, attraversava anche lui il Mediterraneo. Non su un barcone, non in fuga dalla guerra, ma in braccio a una madre sola, che portava con sé quattro figli, una valigia di stoffa e un coraggio ereditato da generazioni di donne abituate a lottare.

Sua madre era una donna del passato, di quelle che non si lamentano, che non si piegano, che affrontano la vita con le mani nude e il cuore pieno. Osvaldo non ricorda quel viaggio con gli occhi, ma lo conserva nel sangue.

Scava nel suo passato, tocca la parte più profonda della propria identità. Non crea un’opera da museo, ma un racconto da ascoltare con il cuore. Ogni piega del volto, ogni tratto delle mani, racconta la dolcezza della speranza e la ferocia dell’abbandono. L’arte diventa così non solo denuncia, ma anche ponte tra tempi, tra storie, tra anime.

Perché questa non è solo la scultura di una ragazza sconosciuta. È il monumento silenzioso a tutti i viaggi che nessuno racconta, a tutti i “paradisi” promessi che si trasformano in frontiere, a tutti i figli che partono e a tutte le madri che resistono.

“Con la scultura Paradise, Osvaldo Moi realizza un’opera che riesce a essere al tempo stesso profondamente poetica e politicamente incandescente. La figura femminile non è solo la rappresentazione di una giovane migrante, ma il simbolo vivente di una moltitudine senza volto, senza nome, senza patria. L’atteggiamento del corpo – fragile ma saldo – e l’espressione assorta, quasi sospesa tra la speranza e il disincanto, evocano una forza interiore che resiste anche nella vulnerabilità. Ma è la felpa, quella vera, quella recuperata tra gli indumenti abbandonati durante un’operazione di soccorso, che fa da detonatore simbolico: su di essa, la scritta ‘Paradise’ brilla come un grido muto, feroce nella sua ironia involontaria, nella sua tragica ambiguità.

Moi non si limita a rappresentare un soggetto: egli incarna una storia collettiva che è stata ignorata, ridotta a cifra statistica, dimenticata dai riflettori mediatici. L’opera non è un monumento ma un atto di testimonianza, un altare laico che reclama la memoria dei naufragi, delle attese infinite, delle vite spezzate tra una sponda e l’altra del Mediterraneo. C’è in Paradise una straordinaria tensione tra forma e contenuto, tra la pulizia del gesto scultoreo e la densità emotiva che trasmette. Il risultato è un’opera che non cerca di consolare, ma di svegliare, che non celebra ma interroga. In questo senso, Moi si conferma non solo come artista, ma come testimone del nostro tempo: uno che ha visto, ha compreso, e ha deciso di non tacere.”

Rosaria Di Prata

Torna in alto